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Un rapporto di Fondazione Nord Est e FriulAdria fotografa il settore caseario. Il focus delle imprese resta il mercato Italia. Ma i consumi calano…

di Giovanni Bertizzolo

Il “ritratto” del comparto lattiero-caseario a Nord Est che emerge da un recentissimo rapporto di FriulAdria Crédit Agricole e Fondazione Nord Est non lascia spazio a dubbio. Il settore regge, crea redditività, dà lavoro, si distingue per modernità, comunica abbastanza, ma svicola sull’export. Un ritratto con luci e ombre, dunque. Una in particolare.
La ricerca è stata realizzata partendo dall’analisi dei bilanci di 62 aziende dal 2008 al 2012. Rappresentativa di uno spicchio di Italia, certo. Comunque una realtà replicabile (tranne, forse, per l’innovazione), fino al punto di rappresentare a tutti gli effetti una fotografia reale dell’attuale movimento caseario.
Riassumendo: limitata proiezione internazionale – derivata principalmente da un volume di produzione “tarato” a coprire il mercato interno, con possibilità di crescita qualora si sappia coniugare apertura ai mercati esteri e specificità territoriale -, ma allo stesso tempo un’intensa propensione all’innovazione di prodotto e di processo per migliorare la qualità e il legame con i clienti, fattori che hanno consentito al settore di raggiungere risultati di crescita dei ricavi negli anni della crisi.

Le imprese del settore – che puntano più sulla qualità del prodotto che su tracciabilità, prezzo e unicità – hanno una concorrenza soprattutto regionale (53,3%), mentre solo per il 23,3% l’ambito si apre al territorio italiano e solo l’1,7% ha uno sguardo internazionale. Un dato che deriva direttamente dal livello (basso) di apertura internazionale: le imprese interpellate realizzano la quota prevalente del proprio fatturato (90%) sul mercato nazionale, con una esposizione leggermente più alta sui mercati internazionali del comparto derivati del latte, che realizza il 13,3% del fatturato in ambito Ue e il 6,1% nei mercati non comunitari.

Nel complesso solo un terzo delle imprese dichiara di intrattenere rapporti con i mercati esteri e – dato forse più emblematico – solo il 33,3% di quanti non hanno attualmente rapporti con l’estero prospetta una possibile apertura, mentre il 4,8% dichiara di aver già in atto progetti concreti di internazionalizzazione. Numeri significativi, inquietanti addirittura se si considera la progressiva diminuzione dei consumi interni, anche alimentari.

Per chi l’ha creata, la principale relazione con i mercati internazionali è di semplice vendita di prodotti (53,2%), mentre una quota minoritaria di imprese è presente all’estero con una propria struttura commerciale sia essa una rete di agenti (4,8%) o una filiale commerciale (4,8%). La fase di produzione rimane, invece, interamente vincolata al territorio, anche in ragione della particolare tipologia di prodotto.

Quali sono i fattori che frenano l’attrazione verso i mercati esteri? Molteplici. In primo luogo, la normativa sulle produzioni e il protezionismo (17,7%), un costo logistico rilevante per la necessità di garantire la freschezza e la salvaguardia dei prodotti (16,1%), la concorrenza estera sui costi (12,9%) e la burocrazia (11,3%), ma anche la mancanza di un’adeguata promozione dei prodotti Made in Italy (9,7%) e la difficoltà specifica della vendita all’estero di prodotti freschi (8,1%).

Un ulteriore elemento che descrive le strategie competitive delle imprese lattiero-caseario è costituito dalle scelte di innovazione. Nel 2013, due imprese su cinque hanno progettato nuovi investimenti, mentre il 22,9% non ha realizzato alcuna innovazione. A queste si aggiunge un terzo di aziende che ha scelto di mantenere costante l’impegno intrapreso. Il settore, quindi, è percorso da una forte spinta innovativa che nell’ultimo triennio si è concretizzata per il 56,5% delle imprese in innovazione di prodotto e per il 50% in innovazione di processo.

Le imprese del settore appaiono fortemente strutturate, con la presenza di funzioni non solo produttive, ma anche terziarie legate al marketing e comunicazione e alla gestione delle tecnologie (hardware e software), così come quelle specificatamente dedicate alla qualità/certificazione.

“Il comparto è dinamico e orientato a uno sviluppo ancora molto locale – osserva il presidente di Fondazione Nord Est, Francesco Peghin -. Grande pragmatismo rispetto all’internazionalizzazione, che potrebbe però riservare soddisfazioni se le aziende del settore decidessero di investire su un’offerta che coniughi specificità locali, cultura del Made in Italy e qualità, e un solido legame con il territorio sono gli elementi che caratterizzano il lattiero-caseario e che si confermano come le possibili strategie per ampliare lo sviluppo di un settore che già oggi evidenzia segnali positivi”.

“I prodotti caseari del Nord est – conclude Silvia Oliva, segretario alla ricerca della Fondazione Nord Est – dovrebbero ricalcare il percorso fatto all’estero dal Prosecco (lo spumante italiano, veneto nello specifico, più venduto nel mondo, ndr). Bisogna trovare prodotti adatti a consumatori diversi e affidarsi a piattaforme in grado di sostenerli, come Eataly di Oscar Farinetti”.

Già, ma il successo del Prosecco è legato al fatto che le sue aziende investono da anni nella capacità produttiva. Una politica, quella dell’alta produttività, antitetica rispetto a quella francese, che ha puntato tutto sulla qualità. Solo per questo motivo il Prosecco ha scavalcato lo Champagne nelle vendite.
La stragrande maggioranza delle nostre aziende casearie, invece, denuncia un limite quantitativo, sufficiente a soddisfare solo le esigenze del mercato italiano. Aziende piccole, quindi, sottodimensionate per pensare più in grande. Tanto che, sempre secondo l’indagine di Fondazione Nord Est e FriulAdria, agli occhi delle imprese (78,7%) il mercato casalingo rimarrà il focus dell’interesse nel prossimo triennio.
Semplice miopia o preoccupante limite?

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