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La sentenza del Tar del Lazio pristina le condizioni originarie: il lisozima non può essere qualificato come coadiuvante tecnologico

di Fernando Marzillo

La parola latte per ciò che rappresenta e per come è conosciuta, può essere associata ad una molteplicità di contesti: al cappuccino che si beve al mattino, alla mucca dei cartoni animati ed ovviamente al formaggio, ovvero il latte divenuto adulto.

Ma la fantasia corre lontano e richiama alla mia mente la locandina dello storico film di Giuseppe Leone: il buono, il brutto, il cattivo, che volentieri associo alla voce latte. Vi chiederete: che razza di accostamento è questo?

Il latte buono è una regola, è un compagno fedele ricco di fattori nutrizionali e funzionali. Occupa nel frigo uno spazio a lui riservato e, quando occasionalmente risulta assente, se ne avverte la mancanza.

Il latte cattivo è un latte che pur essendo nel suo animo buono, non è stato compreso. Reputato di cattiva compagnia è marginalizzato ed escluso: a volte sostituito con discutibili surrogati.

Il latte brutto invece è quel latte che nasce buono, ma appena vede la luce è artefatto da un trattamento tecnologico che lo svilisce perché lo priva di un’importante componente zuccherina (-30%) tale da renderlo la brutta copia di quello che in realtà è.

Fortunatamente la denominazione di latte ad oggi ancora in essere, è riservata esclusivamente al prodotto tal quale ed a quello eventualmente modificato (ovvero ridotto o eliminato) nel solo tenore in grassi.

Per questa ragione la dicitura corretta sulle confezioni di latte a ridotto contenuto zuccherino, non può riportarne unicamente la parola, ma più correttamente la frase: bevanda da latte ecc.ecc…

Ciò detto, vorrei suggerire a coloro che da questa bevanda si sentono attratti, che una tazza da 250 ml, apporta solo 3/4 grammi di zucchero in meno rispetto al latte tradizionale.

Uno zucchero virtuoso il lattosio, da trattare non sempre come un problema, ma sopratutto come un’opportunità per coloro che lo hanno eliminato dalla dieta a scopo preventivo. Possiede infatti un indice glicemico più basso rispetto a quello dei due zuccheri di cui è composto, ha un basso effetto cariogeno e svolge un’importante attività bifidogena migliorando il microbiota intestinale anche nei soggetti che paradossalmente faticano a digerirlo.

Nonostante ciò, sempre più consumatori a prescindere dal loro stato di salute, preferiscono gli alimenti più per quello che è stato loro tolto (zuccheri, grassi, glutine, uova, lattosio), che per quello che invece naturalmente (e fortunatamente) contengono.

Ciò detto, rimango a disquisire sul significato di un altro termine che ha tenuto tanti allevatori e casari di Grana Padano e Parmigiano Reggiano con il fiato sospeso negli ultimi anni. Parlo del lisozima (l’antifermentativo utilizzato per contrastare i problemi di natura butirrica nei formaggi). L’origine del contendere stava nell’individuare la sua corretta sede di appartenenza: se nell’universo dei conservanti come è sempre stato, oppure nella categoria dei più “digeribili” coadiuvanti tecnologici. (leggi in proposito l’articolo del 27 febbraio 2019).

Dopo cinque anni dal ricorso presentato dal Consorzio del Parmigiano Reggiano, in merito alla circolare ministeriale che autorizzava i produttori di Grana Padano ad omettere nell’elenco degli ingredienti l’inquietante appellativo di conservante, è arrivata finalmente la sentenza del Tar del Lazio che ripristina le condizioni originarie: ovvero che il lisozima non può essere qualificato come coadiuvante tecnologico ma rimane un additivo conservante. Festeggiano i produttori di Parmigiano per la vittoria e per gli importanti riflessi sulle politiche promozionali e di comunicazione del loro formaggio.

 

 

 

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