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Nella sarabanda della food communication, tutti i nostri prodotti d’eccellenza sono stati esaltati da chef e giornalisti. Meno i prodotti caseari

di Giovanni Bertizzolo

Penso di non aver mai vissuto delle Festività così smaccatamente all’insegna della food communication. Sarà che entriamo nell’anno dell’Expo, sarà che, nonostante i tempi magri, la cucina e la tavola sono assurti a nuovi status symbol nazionali, fatto sta che web, giornali, libri e tv per giorni e giorni ci hanno bombardati di ricette, piatti tipici, chef rindondanti, prodotti più o meno locali, tavolate imbandite a mo’ di emblema di una nuova società che ha portato il food a sconfinare nel glamour. Tutto in funzione delle abbuffate di Natale e Capodanno. Cibo a go-go, proposto in mille maniere, tipologie, manifestazioni, esternazioni. Tutto troppo, tutto esagerato. Ma così va il mondo oggi.

Ogni chef, ogni rubrica, ogni critico ad esaltare il proprio prodotto riscoperto, reinventato, recuperato. Magari strizzando l’occhio ai vegetariani piuttosto che hai vegani, propinando composizioni realizzate con scarti o prodotti a chilometro zero, cenando con i poveri o con i senza tetto, in un ambaradan che non ha risparmiato nulla e nessuno.

Un operato a volte anche curioso, che mi ha permesso di scoprire le virtù delle cicerchie e la bontà degli sponsali, per non parlare di un Sagrantino 25 anni altrimenti destinato al regno degli sconosciuti. Un bagno ghiacciato nella cultura della buon tavola senza precedenti. Da cui usciamo tutti un po’ più colti, rinvigoriti nello spirito, ma anche spaventati.

Ebbene, in questo caleidoscopio di nozioni ed emozioni, spicca l’assenza dei nostri formaggi. Non ho visto un solo chef, un solo articolo giornalistico, una sola trasmissione inserire nell’ambaradan uno, dico uno dei nostri strepitosi prodotti caseari. Perorando la causa di uno dei portabandiera del Made in Italy.
Al di là delle occasioni contingentate da motivi economici (vedi campagna pubblicitaria del Gorgonzola, così come quella augurale del Grana Padano) e al di là delle situazioni inevitabilmente classiche (esempio: grattugiati sui primi piatti) nessuno nel ghota dell’agroalimentare si è preso la briga di segnalare pubblicamente per il Natale o per il Capodanno il formaggio italiano preferito, esclusivo, ad hoc, unico nel suo genere. Come se i formaggi non facessero parte della casta, per usare un termine di moda. Come se i formaggi non rappresentassero la nostra cucina. Come se i formaggi fossero qualcosa da evitare.

Tutto ciò mi preoccupa e deve preoccupare chi, come noi, non solo li ama i formaggi, ma ci lavora sopra. E’ sintomatico di una comunicazione che non funziona e di un settore fuori dei giochi. Emarginato, se vogliamo. A dispetto di quanto può dare e di quanto rappresenta (vedi la voce export del food nazionale).
Il segnale è inequivocabile. Il settore si deve interrogare e capire dove sbaglia.
Deve, per usare una felice espressione sul marketing di Luca de Meo, “far sembrare grandi cose piccole”.

Soprattutto, deve dare spazio a nuovi impulsi, nuove figure, nuovi motivatori. Deve cedere gli scranni ai giovani che hanno idee e potenziale. C’è aria di rinnovamento oggi in Italia. Il mondo del formaggio ne ha estremo bisogno, questo rinnovamento deve respirarlo a pieni polmoni. O vogliamo continuare a tenere gli occhi chiusi?

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