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Qualche giorno fa la giornalista Monica Rubino ha scritto un articolo su laRepubblica.it nel quale affrontava alcune considerazioni sulle denominazioni europee, le in particolare  le Igp, prendendo spunto da un intervento, tenuto ad Expo, dal Ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina. Rubino scrive e riassume in modo chiaro sulle problematiche relative alla pirateria dell’agroalimentare italiano.

Troppo spesso vengono contraffatti i nostri prodotti nazionali e spacciati per tali, e fin qui conosciamo bene la situazione, quello che non conosciamo a fondo è che le denominazioni europee a volte incentivano questo drammatico problema.

Se parliamo delle Igp, spiega la Rubino, il dilemma è tutto italiano perché per la produzione di un prodotto a cui è riservata questa denominazione è tutelata la zona di origine ma non l’origine dei componenti che vengono utilizzati per produrlo. Ovvio che con questo metodo produttivo, chi ne guadagna è chi ha la forza organizzativa ed economica per acquistare i prodotti che servono a fare un dato alimento, anche da paesi stranieri.

E qui vince il settore industriale. Le Dop ovvero i prodotti a Denominazione di Origine Protetta, detengono regole molto più rigide di quelle delle Igp

Nel rispetto del disciplinare di produzione, i produttore devono osservare regole tecnologiche che riguardano tutte le fasi della filiera e, nel caso dei formaggi, dall’alimentazione delle lattifere, dalla loro salute dalle caratteristiche del latte e così via.  Ma l’osservazione più interessante della Rubino serve a farci capire che con l’irrigidimento dei disciplinari di produzione, con i prodotti Igp che mirano a salvaguardare il prodotto italiano, chi se ne avvantaggia è l’industria e viceversa chi ci viene a perdere è il piccolo produttore, cioè colui che può davvero fare qualità.

La Rubino però non affronta un altro aspetto analogo che riguarda le Dop, e qui parlo del formaggio.  Negli ultimi anni si è visto un incremento della registrazione in Ce di formaggi italiani, a tal punto che ora siamo il Paese europeo che ne vanta di più. Alcune Dop sono supportate da disciplinari di produzioni molto rigidi, dal punto di vista tecnologico, tanto che diventa impossibile, per il piccolo produttore, attivarsi a produrre tali formaggi. 

Quando per fare un formaggio è necessario, obbligatoriamente è ovvio, attenersi a processi produttivi che richiedono particolari preparazioni e altrettanto particolari attrezzature, significa escludere a priori la concorrenza. Purtroppo la concorrenza a cui mi riferisco è italiana e, tanto più, territoriale, di un piccolo luogo, come può essere il territorio di una sola provincia. Ciò comporta che in quel luogo solo un’azienda consolidata e di grandi dimensioni può produrre il formaggio a denominazione.

È corretto? È giusto che al momento della registrazione di un prodotto Dop esista una sola realtà produttiva a farlo? No, non è corretto, anche se nessuna norma lo vieta. Quando il Ministero italiano provvede all’esame della denominazione richiesta, soprattutto se Dop, non dev’essere sufficiente dimostrare che quel formaggio viene prodotto da oltre 25 anni, è necessario anche che si dimostri che quel formaggio è tecnologicamente fattibile dal piccolo, dal medio e dal grande produttore.

Purtroppo non è sempre così. Lo spirito delle Dop è quello di preservare l’originalità del formaggio, l’originalità del luogo e del metodo di trasformazione. Certo nei disciplinari non si parla di qualità ma, oggi, si deve osare, bisogna parlare di qualità. Ma come parlarne se il prodotto è unico? Che metro di confronto possiamo adottare?

È una scelta che dobbiamo fare. Confrontare qualitativamente il formaggio fatto da pastori, che con difficoltà immani riescono ad associarsi, allo scopo di migliorare sempre, o accettare che una sola azienda, magari ricca e potente, si costruisca ad hoc la sua Dop?

 

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