Sei in > formaggio.it > Aldo Lissignoli > Il formaggio ai tempi dei Romani: storia di un rapporto documentato dalla letteratura

Gli antichi Romani nutrivano un forte pudore ad inserire in un testo letterario parole che si riferivano al cibo, per timore di rovinarne il risultato finale. Il Caseus, ovvero il formaggio, poco si prestava  a divenire un oggetto poetico o a comparire sulle mense dei ricchi; solo successivamente, come vedremo, le cose cambiarono. Come logica conseguenza, la sua presenza in poemi e scritti è assai scarsa e di debole  aiuto nel ricostruire un panorama culturale e alimentare assai variegato. Nella cena di Trimalcione di Petronio il formaggio risulta assente e nel ricettario di Apicio esso compare  poche volte; sembra quasi che trovi impiego più in medicina, nella preparazione di sieri e pomate, che  in cucina. Anche nei testi poetici la situazione non è la migliore: nelle opere di Plauto compare quattro volte. Trovò però in Catone e Marziale due veri e propri sostenitori: il primo lo nominò circa quindici volte nelle sue ricette e il secondo fu un suo vero e proprio sostenitore, riuscendo a cambiare così l’opinione del mondo culturale e della società.

La riluttanza nel nominarlo all’interno delle opere poteva essere dovuta al fatto che evocava un mondo di barbarie e di inciviltà, focalizzato come esempio eclatante  nel ciclope Polifemo che appare nei modi e nello stile di vita all’opposto dell’umano Ulisse. In realtà vi furono, seppur pochi, alcuni casi in cui il formaggio comparve. In queste realtà la sua presenza era associata a due visioni antitetiche: in una rimandava a un’immagine idillica e profondamente nostalgica del passato, dove dominava l’idea del “buon selvaggio”, in cui veniva celebrato il tempo trascorso e il rapporto diretto uomo-natura. Nella seconda visione il formaggio fu associato all’idea di “barbarie” (specialmente nei contesti pastorali) e, in particolar modo, a uno stadio di arretratezza culturale oltre che sociale. Quest’ultimo aspetto fu dovuto al fatto che in origine, quando l’uomo non aveva ancora conosciuto appieno l’agricoltura ed essa quindi non era una componente della vita umana, la pastorizia e i suoi “derivati culturali umani” erano i veri cardini della vita delle comunità.

E’ logico come lo sviluppo culturale e sociale non fossero pienamente realizzati in questi sistemi primitivi, da qui l’idea di arretratezza. Queste caratteristiche secondo i Romani non erano però solo tipiche del passato, ma anche dei Germani e di alcuni popoli italici: Cicerone definiva i Liguri “duri at que agrestes”, Livio invece diceva, in riferimento ai Sanniti, “montani atque agrestes”. I due esempi appena citati non sono casuali perché erano due popoli citati da Plinio come produttori dei formaggi universalmente più apprezzati a Roma. Potremmo definirlo un paradosso culturale tra il prodotto, con il suo reale apprezzamento, e l’immagine negativa che avevano i popoli che lo producevano all’interno della società culturale romana. La “rudezza” dell’alimentazione a base di caseus è testimoniata anche nell’Historia Augusta.

Marziale, come già affermato, ruppe con queste convinzioni e parla dei formaggi, del loro consumo e utilizzo nel mondo romano, fornendo quindi informazioni utili per ricostruire il ruolo alimentare e antropologico di questo alimento in una delle civiltà più importanti del passato. Egli pose attenzione in particolare a quattro tipi di formaggio, che riassumono le quattro tipologie di formaggi italici: il formaggio bovino in grandi formati, il Pecorino abruzzese forte e nutriente, il Caprino affumicato a Roma e il formaggio Treburda, da usare cotto. Questi avevano spazi e ruoli assai diversi sulle tavole romane e venivano serviti nei banchetti con un ordine di successione ben preciso. Con Marziale il formaggio divenne simbolo di identità territoriale, gusto e sapienza artigianale, riscattandolo così dal contesto primitivo a cui era relegato, divenendo così oggetto di poesia e artificio letterario.

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