Sei in > formaggio.it > Michele Grassi > Cosa determina un buon formaggio? L’alimentazione delle lattifere? Il casaro?

Da un po’ di tempo si leggono nel web infiniti articoli sulla qualità del latte, sulla tecnica di produzione e sul metodo di stagionatura. Di recente ne ho letto uno, scritto da Roberto Rubino, sulla distinzione di qualità del Parmigiano Reggiano Dop ai vari livelli di stagionatura. Rubino afferma che il buon formaggio si fa dal buon latte, ed è una verità assoluta, afferma anche che, nel caso del formaggio in questione, non sussiste sempre la qualità dell’alimentazione delle vacche. Ci sono allevatori che alimentano le vacche con erba medica ed altri, molti, con fieno sfalciato da prati polifiti stabili, che concedono le erbe anche da più di 100 anni. 

Dice Rubino che la tecnica per fare il Parmigiano è sempre uguale, pur nelle piccole diversità caratterizzate dalla soggettività del casaro. Non è proprio così.  Quando si mettono le mani nella caldaia si utilizzano i sensi per determinare l’inizio e la fine di alcune fasi della trasformazione e le mani sono di persone diverse che osservano, toccano, annusano in modo sicuramente diverso. Da qui, oltre che dal latte di origine, nascono diversità enormi tra formaggi della stessa tipologia, proprio perché provengono da “mani diverse”.

È in caseificio che si fa il Parmigiano Reggiano, come tutti gli altri formaggi, ed è in stagionatura che avvengono le mutazioni chimiche e fisiche che ne determinano le proprietà organolettiche.  È altresì vero che la stagionatura di questi grandi formaggi è la fase tecnologica, in ogni caseificio, più simile, grado più o grado meno della sala di stagionatura. Così com’è dall’alimentazione delle lattifere e dalla trasformazione che il formaggio assume le caratteristiche organolettiche che lo distinguono da caseificio in caseificio.

Al contrario di Rubino, ho assaggiato decine di volte il Parmigiano Reggiano di diversi caseifici e ho sempre riscontrato diversità anche notevoli come lo sono, le diversità, fra un formaggio di 24 ed uno di 36 mesi. Ma questa è un’altra storia.  Concordo in pieno con Rubino quando afferma che per valutare qualitativamente un formaggio bisogna conoscerlo, dalla A alla Z.

È anche vero che i marchi e le etichette non indicano mai la qualità dell’alimentazione delle lattifere, mai differenziano il formaggio fatto con erbe verdi o fieni di erbe di prati stabili o solo da mangimi. Questo è un male. Ma il latte non è sempre sinonimo di qualità del formaggio. Mi capita di assaggiare formaggi pessimi anche se prodotti con straordinario latte d’alpeggio. Purtroppo capita anche questo.  Che è peggio.

 

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