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24 anni, travolto dall’alluvione nel Gargano, Antonio faceva il casaro, producendo Caciocavallo Podolico. Una scelta di vita addirittura criticata

di Giovanni Bertizzolo

Antonio Facenna aveva 24 anni. Figlio unico. Mercoledì sera stava tornando a casa, a Carpino (Foggia), in pieno Parco nazionale del Gargano, sulla strada verso Coppa Rossa. All’improvviso la sua Renault Clio è stata travolta da un fiume d’acqua. Dall’epicentro di un’alluvione che in poche ore ha messo in ginocchio quella fetta di Puglia dove, paradossalmente, è il sole ad avere il ruolo di protagonista assoluto, non di certo un nubifragio.
Per giorni di Antonio non si è saputo più nulla. Finché è stato ritrovato a Canale Puntone, sei chilometri più avanti. Poco lontano dalla sua auto completamente ricoperta di fango. Morto. Tradito proprio dalla terra che non aveva voluto abbandonare.

Antonio Facenna aveva 24 anni e la sua casa era l’azienda agricola dove lavorava con i genitori. Producendo un prezioso Caciocavallo Podolico. Faceva il casaro.
Era conosciutissimo dalle sue parti, Antonio. E anche un po’ criticato. Per la sua vita professionale. Scandita dalla passione casearia e verso gli animali.
Dopo la scuola superiore, infatti, aveva deciso di dedicarsi all’allevamento di vacche podoliche e alla produzione del formaggio, seguendo, di fatto, la strada di papà e mamma. Aveva scelto, Antonio, con volontà e determinazione di tenere viva la tradizione di famiglia, partita dal bisnonno.

Quindi, allo studio aveva preferito il pascolo, la mungitura, il latte, la cagliata. Scelta appunto criticata da chi invece intravedeva per quel ventiquattrenne bello, intelligente e studiato ben altro futuro. Un futuro, quello dell’immigrazione, rifiutato. Orribile considerazione, ma è così: Antonio veniva giudicato come colui che non ce l’aveva fatta, come colui che era tornato indietro a sporcarsi le mani.
Lui soffriva la circostanza. Tendeva a nascondersi dietro il pudore. Fino al punto da giustificarsi dicendo di frequentare l’università in città e di tornare a casa a lavorare solo ogni tanto, quando gli impegni glie lo permettevano. In verità era sempre con le sue bestie e con le mani nel latte.

Brutto, tanto brutto convivere con una società che ti commenta, ti giudica, ti valuta. Peggio ancora in una microrealtà come quella in cui si muoveva Antonio. Sentendo costantemente sulle spalle una mancanza di rispetto che non meriti.
Antonio, però, teneva duro. Dentro di se orgoglioso di una decisione che non avrebbe mai rinnegato. Perché, santoidio, a 24 anni si può decidere di fare il casaro piuttosto che l’impiegato o il manager. Ci si può mettere gli stivali ai piedi, non necessariamente l’ultimo modello di Hogan. Basta aver capito che la vocazione è quella.

E per capire meglio che razza di vocazione avesse Antonio, qualche cronista del posto, in questi giorni di lutto, è andato a recuperare un video del Carpino Folk Festival, il progetto artistico volto alla valorizzazione e alla diffusione delle tradizioni orali del Gargano, dedicato a uno dei più grandi autori di musica popolare, Matteo Salvatore. Gli organizzatori della manifestazione si erano resi conto di chi era e cosa faceva Antonio. E a suo tempo gli avevano addirittura dedicato un documentario. Antonio, un casaro, in un evento di musica e canzoni. Perché anche la sua era poesia.

Al riguardo, il Corriere della Sera ha scritto: “A rivedere Antonio in quel documentario la gente si commuove per la leggerezza e la convinzione con cui parla di latte, pascoli, formaggi, mucche e lavoro non come condanna, ma come strada per realizzare se stessi ed essere in qualche modo anche felici”.
Adesso quel video qualcuno l’ha tolto da YouTube. Maldestro tentativo di nascondere l’imbarazzo. Se non la vergogna.

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