Sei in > formaggio.it > Michele Grassi > Böja, ma questo è un formaggio del XVI secolo!
Quando si dice no, è proprio no, non lo conosciamo.
Sembra strano ma spesso non ci rendiamo conto che stiamo mangiando un formaggio che ha fatto la storia, la nostra storia, quella che ci vede in prima persona a continuare le vicende famigliari dei nostri babbi, nonni, bisnonni eccetera, eccetera.
Ma, böja l’oca, possibile che i nostri avi non approfittassero dell’esperienze dei loro babbi esprimendo curiosità tale, da poter avere una risposta corretta alla domanda, “buono, questo formaggio, ma come arriva sulle nostre tavole?”
O forse, i nostri predecessori, non si sono mai interessati a quello che avevano nel piatto? Certo è che dai nostri, di babbi, spesso non abbiamo ricevuto l’educazione alimentare necessaria per capire che quando mangiamo, non solo il formaggio, dobbiamo necessariamente chiedere, “boia d’un babbo, ma non mi dici proprio mai dove fanno e chi lo fa questo ben di Dio?”
La fame.
Non è solo una questione di educazione alimentare-gastronomica, è anche una questione di fame.
Mi direte, ma allora centra proprio la fame, se uno ne ha tanta vuoi proprio che mentre mangia si chieda da dove viene il tal pane o il tal vino o il tal formaggio?
No, veramente volevo dire il contrario, se uno oggi ha fame è perché è un povero disgraziato, nel senso che ha la disgrazia di non potersi permettere di mettere le gambe sotto la tavola, il problema è proprio che oggi la maggior parte dei consumatori di fame non ne ha, e allora quale curiosità può avere di mangiare il formaggio chiedendosi da dove viene?
Eppure, fame o non fame, se i nostri vecchi ci avessero abituato a conoscere ciò che ingurgitiamo, ora faremmo uno sforzo quasi atletico, per capire che ciò che abbiamo acquistato in bottega è il frutto dell’esperienza di chi l’ha prodotto e magari dei babbi e dei nonni che prima di lui lo facevano con amore e con fame.
Tornando alla fame appunto, i vecchi, e per vecchi intendo quelle persone che vivevano tantissimi anni fa e che ora sono più che sepolti, oltre che alla fame hanno conosciuto la fatica, e se penso alla fatica-fatica, quella vera, mi viene subito da pensare a quella dei pastori che nelle nostre valli padane, spesso paludose e povere di erbe, svernavano per poi tornare alle colline bolognesi o ravennate cibandosi, pensate un po’, del loro formaggio e di qualche pagnotta di pane che facevano con la farina che proveniva appunto dalla bassa pianura.
Ma se questi pastori avevano l’opportunità di farsi le ferie in montagna, con le loro pecore, in pianura si aspettava il momento, lo si fa tutt’oggi, di acquistare il frutto del loro lavoro ovvero il pecorino.
Quindi la fame c’era e c’è oggi ma meno problematica di ieri.
La fame, appunto, non può farci dimenticare che se si sincronizza l’uomo e ciò che è il frutto dell’uomo e delle pecore, ci viene da pensare che, il pastore fa il formaggio.
Ma va, direte voi, ebbene si, ma non avete ancora compreso che tutto ciò ha una logica tanto logica che sembra illogica.
Guardate che oggi non ho bevuto, lo faccio raramente e sempre centellinando quello che colo in gola, è perché è talmente banale parlare del pastore che fa il pecorino che mi è venuta la sindrome della PAT.
È qui proprio che voglio arrivare, in tutta la regione Emilia Romagna ci sono pastori che vanno e vengono dalle colline o dalle montagne ma mi riferisco in particolare, vedendo di rimanere in linea con le frasi scritte più sopra, alle provincie romagnole, Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini e anche dell’emiliana Bologna, ai pastori che fanno un formaggio, il Pecorino del pastore.
Guardate bene che non ho capovolto le due parole, e non voglio dire neppure che il pecorino è di proprietà sua, del pastore, avendo sempre detto pastore e pecorino, questa volta ho messo in ordine le cose affermando con certezza storico-tradizionale che questo è il vero nome del formaggio che i pastori fanno sulle colline in primavera-estate e in pianura in inverno.
Ma lo sanno a Ravenna che il formaggio che solitamente mangiano, quello appunto acquistato dal pastore, è un formaggio storico, tanto che ci viene tramandato già dal XVI secolo, e per questo motivo è iscritto nei registri delle PAT, le Produzioni Agroalimentari Tradizionali?
Boh! Credo che la maggior parte dei romagnoli, ravennati in primis, non lo sappiano.
Hanno forse mangiato, finora, questo formaggio senza le dovute riverenze?
Quelle che servono a capire, rispettando, che non si sta deglutendo un prodottoqualsiasidellenostrecollineromagnole, banale, totalmente privo di interesse, ma il frutto (böja con sto frutto, mi viene sempre) della storia di un territorio che non vede solo scquacquerone e piadina ma un importantissimo formaggio dalle caratteristiche organolettiche del tutto pastorali.

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