Sei in > formaggio.it > Aldo Lissignoli > Cosa c’è dietro il proverbio “al contadino non far sapere quant’è buono il formaggio con le pere”

I proverbi, si sa, sono mezzi importanti per definire abitudini, usanze di un popolo o indicarne le tradizioni e le consuetudini alimentari.
Il proverbio “al contadino non far sapere quant’è buono il formaggio con le pere” è un chiaro esempio di quanto affermato. L’usanza di abbinare la frutta al formaggio è tipicamente medievale. La testimonianza più antica di ciò sembrerebbe risalire alla Francia del Duecento, come è testimoniato da un proverbio molto conosciuto all’epoca: “Oncques Deus ne fist tel mariage comme de poire et de fromage”, ovvero: “Dio non ha mai fatto un matrimonio così riuscito come quello tra la pera e il formaggio”.

Prima però di divenire un matrimonio vincente e consolidato nelle abitudini alimentari e nel sistema culturale, esso fu presumibilmente un abbinamento fortuito, dato dalla collocazione di due generi alimentari alla fine del pasto: la frutta e i formaggi. Seguendo quelle che non erano solo mode, ma regole dietetiche, questi due cibi avevano specifiche funzioni: il formaggio era un “sigillatore” dello stomaco capace di completare il pasto e favorire la digestione; le pere, o più in generale la frutta, di far sciogliere il cibo.
L’accostamento non fu però sempre vincente: in Spagna, per esempio, sebbene l’abitudine fosse presente, non sfociò in un vero e proprio matrimonio. Successivamente fu considerato il simbolo dello dello spazio conviviale che andava ad aprire la parte finale del banchetto: la conversazione.

Fu in Italia che si consolidò enormemente, anche se le fonti letterarie e storiche lo collocano postumo a quello francese, cioè attorno al XIV secolo. L’esempio più alto della sua presenza nel nostro Paese, invece, lo troviamo nelle parole di Petrarca: “Addio l’è sera. Or su vengan le pera, il cascio e ‘l vin di Creti”.
Per molto tempo, però, il formaggio fu poco e mal considerato dai ceti elevati e dalla medicina (come ho già spiegato nei precedenti articoli); dall’iniziale diffidenza si passò tuttavia ad un lento ma costante processo di nobilitazione, fino ad arrivare alla letteratura del Cinquecento, che celebrò il formaggio con toni entusiastici, quasi eccessivi.
Come poteva essere consumato dalle classi elevate? Per poterlo spigare, bisogna considerare che, nelle concezioni dell’epoca, gli uomini erano diversi e quindi dovevano mangiare diversamente.

Un contadino non aveva lo stesso stomaco di un nobile, quindi i cibi destinati ai primi avrebbero potuto aggravare seriamente la salute dei secondi, e questo vale anche nel senso opposto. Seguendo questa logica, i manuali dietetici oltre a fornire indicazioni nutrizionali, sancivano quali cibi erano adatti ai ceti bassi e quali a quelli elevati. In sostanza, un cibo povero come il formaggio poteva apparire sulla mensa degli aristocratici solo con opportune strategie atte a nobilitarlo.

Rientrava in esse, la funzione che aveva sulla tavola: per il povero era un mezzo fondamentale di sostentamento, una delle poche fonti proteiche in grado di arricchire la dieta; per il ricco invece rappresentava la conclusione del pasto, un’aggiunta quasi velleitaria (sebbene non priva di significati, come si è visto). Riti, credenze, norme dietetiche ma soprattutto sociali e culturali hanno accompagnato e stanno alla base di questo solido rapporto, ma sono anche il simbolo dell’importanza del cibo nella vita dell’uomo. I formaggi ne sono un esempio e nell’addentare una fetta di pera con un pezzetto di formaggio, la prossima volta, ci ricorderemo di quanta storia c’è dietro un semplice gesto.

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