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Lisa Ferrarini: “I grandi marchi gestiscono l’80% del giro d’affari, le altre Dop e Igp non escono dall’ambito territoriale. Occorre ripensarle”.

di Giovanni Bertizzolo

Ripensare i marchi Dop e Igp. Adottando una sorta di meritocrazia, decretata da fattori economici, all’interno della legislazione specifica. Lisa Ferrarini (presidente di Assica, l’associazione degli industriali delle carni, ma l’azienda di famiglia è impegnata anche nel settore caseario) è un’imprenditrice che bada al sodo. Parole, ma anche sostanza. Questa volta, però, le sue parole pesano come un macigno e il tono è quello della polemica.
Intervenuta all’incontro romano “Made in Italy agroalimentare: tutela delle denominazioni tipiche”, la Ferrarini ha messo in discussione la gestione del sistema Ue delle denominazioni d’origine.

Oltre l’80% del giro d’affari delle Dop italiane è realizzato dalle prime 10 etichette, le altre restano confinate spesso nel proprio territorio d’origine”, ha detto.
E in queste prime 10 etichette, secondo i calcoli della stessa Assica, figurano solo tre prodotti caseari: Grana Padano, Parmigiano Reggiano e Gorgonzola.
Gli altri? Realizzano un giro d’affari minimo.
“La sensazione – ha aggiunto la Ferrarini – è che questi prodotti senza il sostegno pubblico non riescano a vivere. E considerato che sono assoggettati al complesso sistema di controlli pubblici, senza contare gli investimenti per la tutela, la vigilanza e le verifiche del rispetto dei disciplinari di produzione, comportano spesso costi maggiori del valore aggiunto che riescono a creare. Ha senso tutto questo? È arrivato il momento di aprire una riflessione, fissando magari una soglia di fatturato per le Dop sotto la quale non sia consentito scendere per mantenere la denominazione”.

L’Italia vanta il record di riconoscimenti Ue per il food di qualità, con 264 Dop e Igp. Per quanto riguarda i formaggi, sono 48 i prodotti che si fregiano della Dop, uno solo della Igp. E rappresentano, in valore, il principale comparto delle produzioni a denominazione, con una quota pari al 52% del fatturato nazionale e al 62% della quota export.
“Ma – sottolinea la Ferrarini – oggi i marchi Dop e Igp, nonostante gli investimenti promozionali effettuati fin dalla loro istituzione (agli inizi degli anni ‘90), sono noti al 33% dei consumatori italiani, ma solo al 14% di quelli europei”.

Ha ragione la Ferrarini a mettere in discussione il sistema? Per alcune cose sì, per altre no. Il presupposto, innanzitutto, è sbagliato. Non si può e non si deve ragionare esclusivamente in termini di business quando si parla di prodotti certificati come d’alta qualità. Le Dop e le Igp hanno anche e soprattutto una valenza culturale. Non per niente godono di una tutela speciale. Lo sancisce il regolamento 1151/2012: sono patrimonio culturale dell’Unione Europea. Pensiamo a come vengono prodotti. Con dei disciplinari ben precisi che non sono ispirati dal mercato, ma dalla storia e dalla tradizione. La loro esistenza, quindi, ha fini etici prima ancora che commerciali. E vanno quindi salvaguardati. Sono un bene prezioso. Magari poco conosciuti, poco consumati, poco pubblicizzati, ma, per quanto ci riguarda, rappresentano il meglio dell’agroalimentare italiano. Sono dei portabandiera della qualità. Se buttiamo a mare anche questi, a cosa ci aggrappiamo quando parliamo di Made in Italy?

Tutela, appunto. Da questo punto di vista, le denominazioni funzionano, eccome. Tanto più nei confronti dei marchi italiani. L’ultima dimostrazione è arrivata dal Sial, il salone parigino dell’agroalimentare internazionale, dove sono state sequestrate forme contraffatte di Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Asiago. Azioni promosse dai rispettivi Consorzi.
Va però anche detto che, al netto di questi buoni risultati, effettivamente le denominazioni faticano ad essere riconosciute al di fuori dei confini nazionali e, soprattutto, sotto il peso della crisi economica, stentano a inanellare risultati positivi in termini di valore aggiunto.

Un passo avanti, dunque, va compiuto. Magari garantendo qualcosa in più a chi effettivamente esporta e si fa conoscere nel mondo. Senza però con questo sminuire l’importanza delle denominazioni “minori”.
La chiave di volta potrebbe essere l’aggregazione tra le Dop che contano, fare gruppo per mostrare i muscoli all’estero. Ne abbiamo già parlato nell’Editoriale del 26 ottobre. Se solo si volesse, se solo i più “potenti” Consorzi italiani collaborassero operativamente tra loro, se solo si sedessero a un tavolo comune, l’export dei formaggi italiani decollerebbe. Certo, ci sono iniziative tuttora in corso. Nel comparto formaggi, si possono chiamare Grandi Formaggi Dop, piuttosto che Fromages d’Italie. Ma l’unità operativa è un’altra cosa. Serve una regia comune.

In questo senso, abbiamo da imparare dalla Svizzera. Nel 1999 venne fondata la Switzerland Cheese Marketing. Scopo dichiarato: divulgare la conoscenza dei principali formaggi svizzeri in Italia. Dentro la società, ci stanno tutti: il 50% è del governo svizzero, il resto dei produttori svizzeri di latte, dei vari Consorzi e degli esportatori. Grazie all’azione continuativa di questa società (pubblicità, promozione, presenze ad eventi, sponsorizzazioni) nel 2013 sulle nostre tavole sono arrivate 10.300 tonnellate di formaggi svizzeri, di varie tipologie. In poche parole, un successone.
Basterebbe copiare.

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