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Sessant’anni fa ha aggregato le latterie turnarie del Feltrino. Oggi ha 380 soci che conferiscono latte. Vende in  50 Paesi e l’espansione continua

di Giovanni Bertizzolo

“Complimenti a Lattebusche per l’idea di sviluppo portata avanti, quella di una crescita comunitaria. Questa può essere anche un’idea di futuro, fondata su uno sviluppo diverso”. Così il viceministro all’Agricoltura Andrea Olivero, intervenuto martedì scorso ai festeggiamenti per i sessant’anni dalla fondazione della società cooperativa bellunese.
Uno sviluppo diverso, appunto. Quella di Lattebusche è una storia esemplare di come si possa fare sistema mettendo al centro del progetto gli uomini e il territorio, la tradizione e la modernizzazione, il lavoro artigianale e quello industriale. Un grande calderone di fatica, progetti, espansione. Tutto condiviso. Tutto proiettato in avanti conservando la limpidezza e l’insegnamento del passato.

Fino al 1954 nel Feltrino, come un po’ dappertutto, esistevano solo le latterie turnarie. Erano un centinaio. Ogni famiglia portava lì il latte delle sue bestie e, a turno, appunto, lo lavorava con i propri attrezzi. Il socio manteneva la proprietà del prodotto finale e lo commercializzava in proprio o lo impiegava per il sostentamento della famiglia. In poche parole, si entrava col latte e si usciva col burro e il formaggio.
Finché arrivò la rivoluzione. Già avviata in altre regioni. Finché 36 allevatori non decisero di mettersi insieme e fondare la Latteria sociale cooperativa della vallata feltrina. Una latteria che per la prima volta pagava il latte in denaro.

Non furono anni facili per i nostri intrepidi. Ogni giorno impegnati a vincere la diffidenza e il campanilismo, sopravvivendo ai tanti no che ricevevano. A far capire che vendendo il latte alla cooperativa, l’allevatore poteva  assicurarsi un tenore di vita decoroso e addirittura prosperare. Alla fine ebbero la meglio. E un’agricoltura di pura sopravvivenza fece un passo in avanti storico, diventando un’attività lattiera che dava reddito, che dava la possibilità di un lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito.

Oggi Lattebusche lavora 3.200 litri di latte al giorno in quattro unità produttive. I soci sono diventati 380, tutti conferiscono latte. Esporta in circa 50 Paesi, grazie anche alla controllata Agriform. Il Piave, la Dop inventata e prodotta da Lattebusche, non manca mai da Harrods a Londra. Il fatturato 2014 sarà di un centinaio di milioni.
Una bella storia, dunque, di imprenditoria avanzata, dove un uomo su tutti, il direttore Antonio Bortoli, ha vinto tante partite su uno scacchiere che si faceva sempre più importante e quindi pesante. In queste partite sono state giocate mosse azzardate, ma poi rivelatesi vincente.

Come quella di puntare sulle Dop, sui formaggi “griffati”, elevandoli a portabandiera della nostra produzione casearia. Come quella di aprire i Bar Bianco, bar dove non si vendono alcolici e si possono comprare anche i prodotti caseari. Come quella di investire in prodotti correlati come il gelato. Come quella di innovare puntualmente macchinari e standard produttivi. Come quella di capire per tempo che, dopo aver allargato l’azione commerciale in tutta Italia, l’estero doveva diventare uno sbocco imprescindibile. Come quella di diventare una tutela per i piccoli produttori di montagna. Il tutto mettendo d’accordo 380 anime. Ognuna con le sue paure e le sue ambizioni.

Adesso nelle università si insegna come fare gruppo nell’ambito del lavoro, come formare una squadra vincente. Si parla di comunicazione diretta e indiretta e di dinamica di gruppo. Si sconfina nella psicologia (gruppo-analisi e terapia di comunità) per sfruttare al meglio le risorse umane.
Basterebbe, invece, fare un salto dalle parti di Busche…

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