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Il sapore amaro è quasi sempre un difetto del formaggio, quasi…

di Fernando Marzillo

Delle quattro sensazioni gustative, l’amaro è senz’altro quella che di sé, lascia normalmente un marcato e non sempre gradevole ricordo.

Nel significato comune, l’aggettivo interpreta situazioni per lo più negative e di contrarietà (che amara esperienza!), all’opposto trova nel mondo della farmacologia la sua dimora naturale: basti ricordarlo come elemento connotativo del chinino, indigesto, ma vitale per sconfiggere in passato la malaria.

Storicamente la percezione dell’amaro negli alimenti, è il frutto di un processo evolutivo che abbina il sapore sgradevole alla presenza di sostanze potenzialmente tossiche (alcaloidi) e quindi mette in allerta l’uomo “invitandolo” a riflettere prima di ingoiare il famigerato “boccone amaro”. Nonostante ciò le eccezioni in natura non mancano: tra i vegetali il cardo e la cicoria, tra la frutta il pompelmo, il fegato tra i prodotti carnei, tra le bevande il caffè e la birra.

Nel mondo caseario, la presenza dell’amaro viene in genere ricondotta ad un difetto. Sebbene la soglia di percezione sia soggettiva, rilevarne la presenza nel formaggio è importante, ma ancor più è riuscire a ricondurne l’origine al fine di stabilire un legame tra causa ed effetto.

Resta fermo il fatto che, la maturazione del formaggio operata dagli enzimi presenti naturalmente nel latte, e/o apportati dal caglio, e/o rilasciati dai microrganismi presenti ed eventualmente inoculati, conduce a fenomeni di natura proteolitica e lipolitica decisivi sulle formazione delle caratteristiche reologiche ed organolettiche della pasta. Tra questi, per certi versi originale, è l’attività proteolitica di natura microbica che genera composti intermedi anche amari (peptidi), i quali successivamente ridotti a semplici amminoacidi possono perdere tale proprietà. Così lo stesso formaggio nel corso della maturazione, può inizialmente possedere e successivamente perdere tale sapore.

Ciò nondimeno la formazione di composti amari è collegata a numerosi fattori che singolarmente o in associazione tra di loro, sono disseminati lungo l’intera filiera produttiva.

Già l’alimentazione degli animali di per sé può riservare sorprese: le crucifere colza e ravizzone dalla gialla fioritura, presentano composti (glucosinolati ed acido erucico) in grado di alterare il normale sapore del latte. Anche cime di rapa, fieno greco, lupino, veccia, genziana ecc. trasmettono sapori anomali; ma mentre per gli animali in stabulazione il problema può facilmente essere risolto, difficile lo diventa per quelli accedenti al libero pascolo: in questo caso quella punta di amaro alle volte percepita (e che di fatto non è disdegnata), diventa distintiva dei formaggi ottenuti da ruminanti che si autogovernano nell’alimentazione.

Dal campo al caseificio. Luogo dove l’alchimia del passato lascia spazio alla tecnologia nelle cui pagine si annidano le risposte a tanti perché.

Dosi troppo elevate di caglio, rapporti tra chimosina e pepsina non calibrati in base alla tipologia di formaggio, scelta inadatta dell’eventuale fermento/innesto da utilizzare. E ancora: latte contaminato da batteri di origine fecale, tempi prolungati di refrigerazione, taglio della cagliata non corretto, spurgo insufficiente e scarsa acidificazione della pasta sui tavoli spersori, sono condizioni ottimali che (aimè) favoriscono la eccessiva moltiplicazione dei microrganismi (coli, lieviti, psicrofili), che renderanno manifesta la loro affermazione sui competitori naturali (batteri lattici), “offrendo” formaggi dal sapore amaro, dalla pasta spesso deliquescente, eccessivamente occhiata e dalle croste troppo umide e a volte crepate.

Successivamente, tenendo alta la soglia di attenzione, i riflettori si accenderanno per individuare il momento ottimale della salatura (che non va mai anticipata rispetto alla stufatura), e la tipologia di sale impiegato (marino o di salgemma, integrale o raffinato, dando in ogni caso la precedenza a quelli con minor presenza di cloruri amari). Importante anche il controllo delle salamoie per i valori di temperatura acidità pulizia ecc.

Per concludere un “occhio” ai locali di stagionatura. Ambienti solo apparentemente deputati allo stivaggio dei formaggi, sui quali talvolta si scaricano impropriamente e in maniera semplicistica (scarsi rivoltamenti), le cause del difetto dalle origini tante volte più complesse.

Esiste però un formaggio che fa del sapore amaro la sua forza: è il Panerone di Lodi P.A.T. Deve la sua caratteristica ad una tecnologia unica che tra l’altro non prevede alcun procedimento di salatura della pasta. Ma questa è un’altra storia.

 

2 risposte a “L’amaro nel formaggio”

  1. buongiorno, vorrei sapere se esistono altri formaggi senza sale o con un bassissimo contenuto di sodio. ad esempio, la mozzarella deve necessariamente essere prodotta con sale?
    vi ringrazio dell’attenzione, cordiali saluti

  2. Salve dopo la termizzazione 63° per 30 minuti, è necessario aggiungere il cloruro di calcio? E se si, qual’è la dose minima per quintale consigliata.

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