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L’aspetto della crosta deve piacere come il formaggio al palato

Di Fernando Marzillo

 

Bianca, gialla, rossiccia, grigia, marrone e nera. Sottile, elastica, morbida, dura e untuosa. Sebbene le caratteristiche ed i colori delle croste siano tanto diverse, la loro funzione nel governare i processi di maturazione e protezione della pasta, è indiscutibile.

Una presenza fondamentale per quasi tutte le categorie di formaggi ad eccezione di quelli freschi a brevissima maturazione la cui presenza è segno di un prodotto in fase di alterazione e di alcune paste filate come ad esempio la mozzarella, in cui la funzione protettiva della pasta, è affidata al sottile strato esterno (pelle), avvolto nel liquido di governo.

La crosta deve però piacere alla vista come il formaggio al palato, deve apparire senza difetti e suscitare nel consumatore una positiva curiosità. Così come nella vita dove la prima impressione volenti o nolenti è spesso quella che conta, così anche nel formaggio le caratteristiche visive della parte esterna sono importanti perché spesso le uniche a trasmettere informazioni in grado di condizionare l’acquisto. Questo aspetto, che se volete possiamo anche definire di natura edonistica, è comunque autentico; trova conferma nel detto: “si mangia prima con gli occhi che con il palato”, ed assume tanto più valore quanto più il formaggio viene commercializzato nella sua integrità.

I diversi trattamenti effettuati sulla crosta, rappresentano perciò un passaggio tecnologico assolutamente non elusivo. Tra i tanti, quello più classico e comune, ma dal consumatore molte volte ignorato o sconosciuto, è proprio la salatura: alla funzione chiaramente saporifera, si accompagna quella antimicrobica, osmotica e di ispessimento.

Tuttavia altri metodi, anche ereditati dal passato, ma mai banali, sono stati ripresi per “vestire” il formaggio con abiti ora più attraenti, ora più vistosi.

Tralasciando volutamente le pratiche che prevedono l’impiego delle foglie di fico, di castagno, della paglia e del fieno, tecniche peraltro più distintive dell’affinatura che della conservazione, e che personalmente ritengo tante volte essere accorgimenti utili più a far lievitare il prezzo del formaggio, che non la sua qualità, voglio menzionare alcuni interventi eseguiti sulla crosta che, per l’effetto cromatico manifestante, non possono non incuriosire un attento consumatore.

Uno è l’utilizzo del concentrato di pomodoro su diversi pecorini prodotti specialmente nell’Italia centrale. Il singolare, ma naturale trattamento, sfrutta la natura acida della solannacea che funge da barriera protettiva contro gli attacchi di muffe e parassiti amanti al contrario di ambienti più alcalini; in secondo luogo contribuisce a mantenere più elastica la crosta proteggendola dal rischio di fessurazioni e spaccature, tanto più frequenti quanto più inadatti possono o potevano essere, gli ambienti di stagionatura.

Un’altra operazione, anch’essa di origine antica, nata per nascondere i piccoli difetti di crosta e per contrastare l’azione roditoria degli acari (all’epoca nessuno pensava a combattere la loro presenza su materassi e cuscini), prevedeva la cappatura della superficie esterna con tinte di color nero. È il caso del Parmigiano Reggiano trattato fino agli anni 60 del secolo scorso, con una mix di olio di vinaccioli, nerofumo, terra d’ombra e chissà cos’altro ancora, tutto rigorosamente segreto nelle proporzioni. La tecnica utilizzata, permetteva inoltre di rallentare gli scambi gassosi con l’ambiente esterno e quindi l’invecchiamento del formaggio, impedendo un’eccessiva secchezza della pasta al tempo più asciutta (e forse meno appetibile) di quella attuale, perché frutto di una lavorazione poco grassa, ma giustificata perché economicamente conveniente. In quegli anni infatti scremare tanto il latte, significava ottenere molto e ben remunerato burro.

La vecchia e abbandonata tradizione, è stata recentemente rivista ed adattata da un caseificio dell’appennino bolognese, che trattando la crosta con carbone vegetale e cera d’api, ha ridato nobiltà, colore e il nome: “Sua Maestà il Nero”, allo storico formaggio, conservandone però le caratteristiche ed esaltandone il gusto, grazie ad un’alimentazione delle lattifere con i foraggi prativi ed incontaminati della montagna.

Due parole vanno infine dedicate al Morbier A.O.C. anche detto Fromage avec ligne bleu, perchè solcato orizzontalmente da una rigatura oggi costituita da carbone vegetale dalla funzione puramente estetica. Originariamente però, erano la cenere di legna e la fuliggine ad essere distribuite sulla superficie di una mezza cagliata nel ruolo di un’ipotetica pellicola/crosta protettiva da insetti e generiche impurità. Una cagliata però troppo piccola per diventare Comtè a causa delle scarse produzioni di latte nei mesi invernali, alla quale il giorno seguente andava necessariamente sovrapposta quella di una nuova caseificazione per diventare il Morbier: un nuovo e speciale formaggio d’oltralpe nato tra gli alti pascoli dei monti Giurassici che taluni ancor oggi, confondono con un erborinato.

 

 

 

 

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