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Oggigiorno produrre formaggi significa possedere specifiche conoscenze e competenze tecniche non richieste in passato

di Fernando Marzillo

Dilettarsi tra i fornelli per produrre in casa il formaggio sembra essere più di un semplice divertimento.

Latte, caglio, un pizzico di sale et voilà il capolavoro caseario si è completato. D’altronde se le fonti storiche fanno risalire alla civiltà dei sumeri le prime produzioni casearie, la cosa può essere di stimolo per legittimare le ambizioni di tanti casari domestici.

Trasformare tra le mura amiche il latte in formaggio non è però cosa semplice e diversi fattori ne rendono complesse le fasi tecnologiche: spazi angusti, attrezzature spesso requisite al loro normale utilizzo casalingo e impiegate come surrogati delle più idonee attrezzature casearie, ambienti di stagionatura quasi mai compatibili ad una adeguata maturazione. Inoltre l’ipotetico risparmio economico non è rilevante, mentre l’impiego in termini di tempo notevole. Il risultato di cotanto impegno si materializza nella bontà della caciottina o del primo sale ottenuto. Per la verità (senza nulla voler togliere agli improvvisati, ma appassionati casari), la prelibatezza del formaggio prodotto è più spesso legata ad un valore di gratificazione personale, che ad una sua oggettiva ed indiscutibile qualità.

Questa tendenza che pare essere contagiosa, io credo abbia origine da alcune fattori.

In primo luogo ritengo che l’elemento scatenante (che va oltre le difficoltà oggettive sopra menzionate), nasca dalla curiosità e il desiderio di capire cosa stia succedendo in quel pentolone di latte. Ne scaturisce un senso di meraviglia e stupore tipico degli infanti quando alla vista il latte non è più latte, o quando senza un apparente motivo le sieroproteine che affiorano in superficie originano la ricotta. Queste esperienze sono auspicabili soprattutto se rivolte ai più piccoli, assetati di curiosità concreta e per nulla virtuale.

In secondo luogo il senso di tali produzioni casearie , mi sembra possa ricondursi ad un tentativo di riappropriarsi di qualche cosa che nel tempo è andato perduto. Ovvero una certa manualità che il mondo tecnologico attuale tende a far scomparire ed un desiderio di recuperare quel rapporto con il cibo che la globalizzazione tende invece a fare sopire.

Sotto questo aspetto fortunatamente ci vengono in aiuto i marchi di tutela D.O.P./I.G.P./ P.A.T. che relativamente al solo mondo caseario contemplano oltre 500 formaggi. Sono marchi che esprimono un legame profondo tra le produzioni casearie e l’ambiente di produzione, garantendo perciò la qualità di origine.

Fatte queste opportune considerazioni, vorrei elogiare il lavoro dei casari. Mestiere difficile, faticoso e usurante, ma è grazie al loro impegno che le nostre tavole si imbandiscono di tanti formaggi per tutti i gusti e in tutte le stagioni. Una cosa li accomuna ai casari domestici: la passione per quello che fanno. Tuttavia oggigiorno produrre formaggi significa possedere specifiche conoscenze e competenze tecniche non richieste in passato. Per di più occorrono ambienti di lavorazione idonei non solo dal punto di vista organizzativo/gestionale, ma idonei in quanto destinati unicamente al latte, alle attrezzature ed alle cagliate prodotte. In questi locali si instaura e si seleziona una flora batterica di tipo filo caseario che “colonizzando” l’ambiente circostante, concorre ad innescare i corretti processi fermentativi rendendo più difficile la crescita dei microrganismi non desiderati, a volte invece combattuti con accaniti, inutili e controproducenti trattamenti sanitari. I casari sanno bene che il controllo microbico ottenuto per via fermentativa risulta essere sempre vincente.

Prova ne siano che i caseifici appena ristrutturati, ammodernati o edificati ex novo, in sostanza ancora “sterili” o poco colonizzati dalla microflora lattica, siano nei primi giorni di attività causa di problemi microbiologici risolvibili solo con il tempo e con l’aiuto di (naturalmente) appassionati casari.

 

 

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