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Il formaggio come alimento alternativo alla carne? E perché no!

di Fernando Marzillo

E’ una convinzione assodata. Un’usanza dalle origini antiche e rafforzata dal noto proverbio emiliano che così recita: da tèvla an liveret mai, s’la bòcca l’an sa ed furmai; ovvero lombardo: la bòca l’è minga stràca se la sa nò de vàca.

Pare proprio che il momento più indicato per consumare il formaggio si configuri al termine del pasto.

Tuttora noi stessi adottiamo i sopraccennati suggerimenti nella quotidianità di un pasto feriale, o durante un’elegante cena. Anche al ristorante, la regola vuole rafforzare questi antichi aforismi riservando al formaggio le ultime pagine dei menù. In questo modo, a tavola, il suo consumo precede di fatto solo il caffè ed i saluti. Quando è così la presenza del formaggio nel piatto finisce per ridursi a poca cosa annullando potenzialità comunicative e nutritive dell’alimento. Tutto rimane inespresso in un’anonima fetta a volte ancora ingiustamente accusata di essere la causa di tanti mali.

E allora: perché svilire un alimento così buono, nutriente, serbevole, perché ancora il formaggio non riesce ad affermarsi pienamente in cucina alla corte di grandi chef o sulla tavole domestiche? Le risposte come spesso accade si nascondono nella storia.

Nel lontano passato il formaggio, è sempre stato trattato con pregiudizio, sia per i suoi aspetti nutrizionali, sia come alimento in quanto tale, perché identificativo dello stato sociale.

Come spiega lo storico Montanari docente di storia medioevale e storia dell’alimentazione, alle classi sociali più povere, più esposte ai rischi delle frequenti carestie alimentari, si riservavano cibi con forte capacità conservativa come per l’appunto i formaggi. Tale “dogma” alimentare si fece fortunatamente meno rigido nel corso dei secoli per la presenza nel nostro Paese dei monaci, i quali già produttori, riuscirono ad inserire nelle classi nobili e in chiave confessionale il formaggio come alimento alternativo alla carne. Per modificare le consolidate pratiche alimentari cariche di pregiudizi, il tempo fece il resto: il formaggio entrò in cucina dapprima come oggetto di abbellimento e decoro nelle tavole imbandite, e successivamente come alimento nel senso più vero del termine, ma rigorosamente dopo le portate principali.

A dare forza alle teorie medioevali, il convincimento medico che riteneva il formaggio alimento pesante da digerire, perché reo di ostruire il fondo dello stomaco ovvero il passaggio del cibo nell’intestino. Meglio allora consumarlo alla fine del pasto dove avrebbe al contrario svolto una funzione sigillatoria e conseguentemente avviato i processi digestivi.

L’usanza in questo modo affermatasi e giunta fino ai giorni nostri, pur conservando l’aspetto storico, potrebbe tuttavia essere rivisitata e corretta così come il senso di un altro proverbio che rispolvero con piacere, a cui sono legato e che dalle mie parti (inflessioni dialettali permettendo), “suona” ancora così: pane formaggio e vino, mangiar del contadino. La mia lettura vuole interpretare il proverbio per valorizzarlo, e non per sminuirlo come purtroppo credo sia passato alla storia. I tre alimenti infatti, nella loro semplicità, sono sempre stati considerati marcatori sociali di quel mondo agricolo culturalmente (ma impropriamente) arretrato. Appartengono tutti però alla categoria dei cibi fermentati che sopravanzano culturalmente (per profusione intellettuale richiesta), sia quelli cotti che a maggior ragione quelli crudi.

Concludendo: abbattuti gli steccati ideologici e i privilegi sociali del passato, prevedere il consumo del formaggio come piatto di apertura o di portata, diventerebbe espressione di una maturità culturale (per ciò che il formaggio rappresenta anche sotto l’aspetto tecnologico), e culinaria (per l’arte di prepararlo, descriverlo e servirlo).

A noi il compito di valorizzarla e diffonderla affinchè il formaggio, libero delle remote sudditanze, possa occupare quel podio culinario che merita e noi tutti degustarlo non già a sazietà raggiunta.

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