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All’origine di ogni formaggio c’è sempre un casaro

 

di Fernando Marzillo

Questa la convinzione di molti secondo cui la trasformazione del latte in formaggio sia tutto sommato banale, semplice, ripetitiva ed alla portata di tutti.

Accetto questa tesi solo se per formaggio intendiamo una esclusiva trasformazione di natura fisica/chimica di una sostanza liquida in una solida, ma che poco si preoccupa di considerare le caratteristiche organolettiche dell’alimento.

Estremizzando, lo stesso termometro potrebbe essere perfino superfluo se consideriamo veritiere le testimonianze di tanti casari di un tempo i quali, refrattari alla tecnologia, ma sostenuti dall’esperienza, affermavano: “meglio il gomito che il termometro”. In effetti lo scarto termico dell’avambraccio a contatto con il latte, rispetto al più preciso strumento graduato, ha dimostrato essere solo di pochi decimi di grado.

Ma per produrre il formaggio occorre ben altro. Non è sufficiente affidarsi al caso, ed alla saggezza contadina: “lo abbiamo fatto sempre così”. L’avvento della microbiologia e lo sviluppo tecnologico hanno fortunatamente permesso di capire gli allora sconosciuti fenomeni biochimici della coagulazione considerati in passato in parte misteriosi, e così migliorare la qualità dei prodotti ottenuti.

Oggi un casaro che dimostra poca famigliarità rispetto ad un acidimetro o ad un pHmetro potrebbe somigliare ad un medico che non conosce l’utilizzo dello stetoscopio: vi fareste da lui visitare?

Eppure da soli, scienza, esperienza e tecnologia, non sempre sono sufficienti per raggiungere i risultati auspicati. Ferma restando la qualità della materia prima, è la passione che il casaro infonde al suo lavoro la discriminante necessaria a rendere tante volte più “saporito” il suo formaggio.

Lui che si alza al mattino prima del sorgere del sole, che si allontana dal suo regno solo per portare a casa il latte fino all’ultima goccia, che si compiace per i buoni risultati ottenuti, ma con occhio critico sa mettersi in discussione quando non tutto è andato per il verso desiderato.

Casaro che, dalla panna affiorata durante la sosta notturna, sa riconoscere le caratteristiche del latte e che, dalle risposte della cagliata alle sollecitazioni della spinatura, cottura e spurgo, profetizza formaggi eccellenti o probabili imperfezioni. E proprio da queste riparte appassionatamente, avvalendosi dei consigli tecnici e scientifici e sfruttando altresì l’esperienza maturata che alle volte gli suggerisce di voltarsi indietro per poter andare avanti. Ogni sua azione è però “unta” di passione, quella passione che per le fatiche e i sacrifici compiuti lo compensa più delle remunerazioni ottenute. Perciò non conosce feste comandate, ferie estive e non sa entrare nel merito del discorso quando si parla di ponti poiché del nome ne conosce solo il significato originale ed autentico.

Nonostante tutto, alla chiamata risponde sempre presente diventando ora custode, ora ambasciatore di quella cultura casearia che rende il formaggio un oggetto culturale poiché legato alle nostre tradizioni e abitudini alimentari. Abitudini alimentari che, come accade invece per altri alimenti, ancora non suscitano nei prodotti caseari, quei particolari entusiasmi che invece il formaggio meriterebbe, non foss’altro per l’invidia nutrita da tanti consumatori stranieri abitanti di Paesi che non vantano solide tradizioni casearie.

Ricordiamoci: dietro ad ogni formaggio, si trova sempre un casaro, che non si lesina davanti alle fatiche che tale lavoro impone.

Se poi la passione fa parte della dote che porta in se, a lui auguriamo ancor maggiori soddisfazioni professionali: come quando a piene mani, sempre concreto, ma nel suo intimo ancorché stupito, estrae con le braccia immerse nel siero ancora caldo la sua nuova creatura.

Buon lavoro a tutti i casari.

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