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Da una parte i produttori di nicchia, dall’altra chi lavora per la Gdo. Ognuno barricato sulle sue posizioni. Così l’Italia dei formaggi non cresce

di Giovanni Bertizzolo

Tradizione e innovazione sono due termini abusati nella comunicazione del food italiano. Spesso e volentieri accostati per supportare una suggestione cara a molti creativi, spinti a insistere su questo percorso dagli input di alcuni produttori che poi sono anche i grandi investitori pubblicitari.
Tradizione e innovazione restano comunque due termini imprescindibili quando si parla di sviluppo. Vanno soppesati adeguatamente. Tanto più quando l’argomento riguarda i formaggi. Paradossalmente un settore che soffre più di altri la sua esclusività e la conseguenze micro produzione. Quante volte abbiamo detto e scritto di una tipologia di formaggio che rappresenta una nicchia? Spesso, molto spesso. La stragrande maggioranza dei formaggi italiani sono così: territoriali, prodotti con ristrettezze evidenti in ambienti difficili.  Miracoli italiani che racchiudono tipicità e artigianalità sopraffina. Sui quali Slow Food è riuscito addirittura a creare una sotto-nicchia: i presidi, prodotti e peculiarità in via di estinzione.
Il risultato, lo ribadiamo, sono prodotti eccezionali, ma talmente esclusivi che conoscono e apprezzano pochi intimi. Che frazionano l’Italia e il mercato, dilapidando un patrimonio in un panorama tanto sconfinato quanto sconosciuto ai più.
Si potrebbe obiettare: a noi piace così, facciamo formaggi stupendi per chi se li merita. Il famoso “piccolo è bello” portato all’estremo. Un concetto che ha una sua logica, ma che non fa crescere il movimento. Se vogliamo confrontarci con un settore che intende svilupparsi, investire, dare lavoro, magari anche provare ad esportare.
Anche in questa faccenda, purtroppo, l’Italia è spaccata. I puristi continuano a ritenere formaggi quelli rari, magari prodotti in malga col latte di poche e fidate bestie. I modernisti chiedono prodotti che abbiano più copertura commerciale: obiettivo Gdo, per capirci. Da una parte il prodotto di alta qualità a tiratura limitata, dall’altra il prodotto definito più commerciale. Una via di mezzo non si trova. Ognuno barricato sulle proprie posizioni. Su una roccaforte il casaro-artista, sull’altra il casaro che pensa anche da imprenditore. Tanto, si dice, il mercato premia tutti: i piccoli come i grandi. Non è vero. Altrimenti il settore caseario vivrebbe giorni migliori di quelli che stiamo vivendo. Dove il prodotto a chilometro zero fa molto clamore, ma poca cassa.
Dove continuiamo a vedere una decina di tipologie di formaggi italiani Dop che hanno successo, in Italia e all’estero, spinti nell’azione di crescita da Consorzi di tutela motivati e organizzati, e il resto che vive ai margini, idolatrato dalla critica e penalizzato dal mercato.
Mettere insieme tradizione e innovazione per far crescere non sempre i soliti noti, ma una buona parte del settore caseario, resta una sfida.
Che qualche privato come Oscar Farinetti e il suo Eataly sta provando ad affrontare, sia pure in maniera discutibile e discussa. Però serve molto di più.

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