Come mille anni fa,
Matera, la Murgia e i mandriani che non hanno trasferito solo bestiame e formaggi ma anche usi e saperi
di Francesco Linzalone
Per anni sono rimasto all’oscuro di cosa fossero la Podolica e il Podolico. Oggi, dopo anni di incursioni per SlowFood in tutta la Basilicata, conosco prodotti, produttori e la geografia agroalimentare della regione. Il concorso “il Formaggio del Cuore” mi dà il pretesto di scrivere su prodotti e culture, cibi e territori, immagini e suggestioni. Ho già in mente una ricetta che ho ideato qualche tempo fa, ma che non ho mai portato a compimento. Nella mia mente vuole essere la sintesi di due prodotti simbolo della Lucania: il pane della mia Matera, monumento del cibo materano, e il caciocavallo podolico, indiscusso principe caseario dell’intera regione lucana.
La Murgia
Matera geograficamente gravita sul versante pugliese e si distende lungo il torrente Gravina da dove parte l’altopiano della Murgia, un immenso pascolo di erbe aromatiche dove greggi e mandrie di podoliche si muovono lentamente in tutte le stagioni. Tra le erbe aromatiche di timo, rucola, finocchietto e cardo la bovina dai grossi occhi sembra voler dire: sono mille anni che sto qua. Le capre saltano sui muretti a secco per strappare i germogli di “calapricio”, il pero selvatico, mentre pecore e mucche vanno a testa bassa e rasano tutto. Il pascolo è spesso magro, gli animali ossuti, danno poco latte ma i formaggi che ho potuto assaggiare sono stati a volte sconvolgenti per l’esplosione di sapori che mi hanno liberato in bocca. Sul versante materano della Gravina viene annualmente a pascolare una mandria di grigie podoliche. Appartengono a un ex maresciallo della Forestale che coltiva, anzi alleva, la passione della Podolica. E’ originario di Picerno, sulla montagna lucana. Lui pascola, lui alleva, lui caglia, lui stagiona.
Lo vado a trovare nella sua baracca di tufi e lamiere. In silenzio versa il latte nella nera caldaia di rame nella quale avvia una serie di operazioni con mani, utensili di legno, bastoni sagomati, secchi, schiumarole, legna e fuoco. E’ tornato da poco da Picerno con la mandria di 300 capi dopo cinque giorni di transumanza. Mentre lavora alla filatura della pasta con le mani in acqua, mi dice: “Dottò! Sceglietevi una forma da là” e con la testa indica una porta di legno affumicata. Apro e mi si svela una grotta buia in cui a malapena vedo file infinite di caciocavalli come piccoli impiccati ai lunghi bastoni. Me ne vado ringraziando e tenendo gelosamente sotto il braccio quel palloncino di cui conosco ormai il destino. Il profumo ha già invaso il chiuso dell’auto. Muschio, funghi, nocciole e noci, fieno, erbe aromatiche, un arcobaleno di profumi. Sono inebriato.
Il pane.
Ho bisogno di un bel pezzo da chilo, formato alto. Il più tradizionale. Vado dalla mia amica Patrizia, fornaia da generazioni. Il pezzo: ottimo colore, crosta biscottata, mollica gialla, semola di grano duro Cappelli, buona lievitazione con lievito madre. Dopo sette giorni il pane non è più morbido né durissimo. Per me va bene. Lo taglio a pezzi e lo metto a bagno nel latte.
Lo sformatino.
Affetto una grossa cipolla di Acquaviva, presidio Slow Food; dolcissima. La metto a stufare a fuoco dolce e diventerà una crema. Il pane è ormai intriso di latte. Strizzo, mescolo con la cipolla, un pizzico di sale, pepe. Con il grosso coltello delle occasioni apro il caciocavallo. Inizialmente è tenace, ma poi si concede alla lama con morbidezza. Giallo come i saponi da bucato di una volta. Annuso, assaggio. Pastoso, burroso, cremoso, scioglievole e persistente. Mi sembra di masticare del fieno della Murgia. Lo taglio e lo grattugio a scaglie che mescolo con l’impasto. La sua morbidezza mi fa già immaginare che durante la cottura si legherà al pane e alla cipolla. Riempio quattro coppette di porcellana e copro con un disco di pane imbevuto nel latte. Venti minuti in forno. Intanto scaldo il latte e, quando a temperatura, verso altro caciocavallo che mescolo velocemente. Si forma una crema densa e fluida. Sforno le coppette e faccio calare un mestolo di salsa sugli sformatini. Pronto.
La transumanza.
Dopo le ultime operazioni di finitura, assaggio e rifletto. La preparazione di questo semplice piatto, la ricerca del caciocavallo, essere tornato sulla Murgia, aver visto le mani del maresciallo che cagliavano e filavano, aver sentito i campanacci delle podoliche libere al pascolo, mi ha trasmesso qualcosa di antico, di arcaico. Da sempre i mandriani non hanno trasferito solo bestiame e formaggi ma anche usi e saperi. I sentori della montagna si mescolano con quelli della pianura, una fetta di caciocavallo si distende su di una fetta di pane di Matera ed i sapori si sono sposati in un morbido connubio. Non c’è più confine tra montagna, collina o marina; l’altalena della transumanza ha portato con sé i profumi dei pascoli della Lucania e uomini, animali e cibi si sono insediati in una terra che da sempre vive di questo: pane e formaggio. Semplici ma sempre autentici; ma solo qui, dove il tempo scorre …. come mille anni fa.